La mia Vita

La propria vita: raccontarsi in retrospettiva

 

I curriculum vengono scritti per raffigurarsi e in genere prodotti e aggiornati, in progressione, durante il proprio ciclo di vita professionale.

Per mio diletto personale ho deciso di stendere queste righe alla conclusione del mio percorso accademico per “raccontarmi” cosa abbia combinato in questi cinquanta anni di “vita bocconiana

Ho salito le scale della mia Università, in via Sarfatti 25, per iscrivermi, quale matricola, nel settembre del 1968 mentre lascerò la Bocconi nel novembre del 2018.

E’ incredibile, sono passati 50 anni, forse fa più impressione dire mezzo secolo ma tutto è trascorso in un lampo. Se guardo indietro mi vedo chiaramente seduto in Aula Maggiore per frequentare le lezioni del corso di Matematica, impartite dal terribile ma affascinante e simpatico prof. Ricci. Quando mi sento chiamare professore quasi mi sorprendo di non essere più uno studentello da tanto tempo.

Nella mia prima carriera di studente ho avuto due grandi fortune. La prima, ha inciso sui comportamenti e il senso di responsabilità che sono indotti dal vivere l’esperienza universitaria “fuori casa”. Mio padre, per motivi di lavoro, era stato trasferito da Milano a Taranto. Io ritornai a Milano per frequentare la Bocconi e vissi quell’esperienza ospite del Pensionato Bocconi, la residenza storica dell’Università per gli studenti che risiedono fuori sede. Compresi che la mia vita era cambiata radicalmente quando andai al Pam, il supermercato di Viale Bligny, per acquistare un tubetto di dentifricio. Scoprii con sorpresa che non esisteva solo il brand che mia madre rinnovava nella sala da bagno ma tantissimi prodotti, di svariate marche e molto diversi tra loro. Dovetti esprimere la mia prima scelta, decidere il brand del mio dentifricio e decidere da solo.

Vivere fuori casa significava gestire completamente in autonomia la propria vita. Frequentare o non frequentare i corsi universitari, impegnarsi nello studio per mantenere la media che permetteva di accedere al “Presalario”.  Gestire parsimoniosamente il budget per sostenere tutte le piccole spese di sopravvivenza senza gravare sulla propria famiglia. Imparare a relazionarsi con i propri compagni in momenti molto inquieti e turbolenti, come furono gli anni della fine del 60 e dell’inizio del nuovo decennio.

Se potessi dare un suggerimento, auspicherei che tutti i giovani cittadini italiani possano aver la mia stessa opportunità di frequentare e vivere la loro vita di studenti universitari in un’altra città, in autonomia e distaccati dalla propria famiglia. Il senso di responsabilità che deriva dal confronto con se stessi e con gli “altri” si accresce perché si è obbligati a gestire la propria vita. Aiuta a divenire, come si dice, più grandi e consapevoli.

La seconda fortuna fu vivere la transizione della Bocconi da una Facoltà di Economia e Commercio ad una Università di  Economia e Gestione Aziendale.

Il cambiamento fu entusiasmante e coinvolgente per tutti noi studenti. Venne rinnovato tutto il piano di studi, introducendo materie nuove, non comprese nell’ordinamento universitario italiano. Materie e nuovi saperi che ci avvicinavano, come nel mio caso, nel nuovo corso di laurea in Economia Aziendale, alle intriganti e affascinanti pratiche della gestione delle imprese, rendendoci consapevoli del mondo reale dell’economia e dei mercati.

Si rinnovò la sperimentazione didattica, introducendo per la prima volta l’utilizzo di case history aziendali che ci disciplinavano nell’utilizzo dei processi di problem solving e decision making. La tesi di laurea fu una vera sfida. Stefano Podestà, il mio relatore, mi assegnò un titolo: La variabilità delle decisioni di marketing mix nelle varie fasi del ciclo di vita del prodotto. Detto ciò mi disse che i contenuti erano sperimentali, non noti, che la bibliografia era inesistente e quindi la sfida era tutta mia nel tentare di iniziare una riflessione ed una ricerca speculativa.

La tesi mi fece scoprire la giustificazione quantitativa applicabile alle decisione di prodotto, di prezzo, di comunicazione, vendita e distribuzione. Lessi la letteratura più avanzata di allora, illuminante fu il testo di Philip Kotler, Marketing Decision Making, che insegnava ad utilizzare gli algoritmi matematici per giustificare in modo “contro intuitivo” le decisioni riconducibili al Marketing.

Nacque in quei giorni l’amore, la curiosità e la passione per una disciplina “multidisciplinare” che cercava di studiare e spiegare una delle cose, ancor oggi, tra le più difficili da interpretare: il comportamento del consumatore.

Arrivò il giorno della discussione di tesi e Podestà, dopo un lungo ed impegnativo contradditorio, riuscì, presumo, a convincere la Commissione di Laurea che “me l’ero cavata” e mi venne reso l’onore dei pieni voti e della lode. Fui, in particolare, felice per mio Padre, un vero riferimento, che aveva assistito alla seduta e forse vedeva, con orgoglio, un figlio adulto.

Ero riuscito a terminare il corso universitario entro i quattro anni, nella sessione di novembre. Non ci fu molto tempo per festeggiare perché, come succedeva allora, venni chiamato subito ad onorare i miei doveri di cittadino in armi.

Ebbi il privilegio di assolvere il servizio militare con i gradi Sotto Tenente di Artiglieria e vissi una nuova e sorprendente avventura. Al 41° Reggimento di Artiglieria Pesante Campale di Padova mi venne assegnato l’incarico di Aiutante Capo Centro Tiro del 3° Gruppo. All’inizio ritenevo che l’esperienza sarebbe stata tediosa e avrebbe solo ritardato di 15 mesi l’ingresso nel mondo del lavoro e l’inizio della sfida professionale. In realtà fu un’altra entusiasmante avventura. Alle routine negli acquartieramenti della caserma si avvicendavano esercitazioni diurne e notturne, simulazioni di dispiegamento dei nostri mezzi sulle rive del Brenta, in previsione di una possibile minaccia proveniente da Est. Furono comunque le relazioni personali con i commilitoni e il personale militare, in servizio permanente effettivo (Ufficiali e Sotto Ufficiali), ad arricchire la mia esperienza di giovane uomo. Iniziai a comprendere ed apprezzare cosa significhi la vera solidarietà tra le persone, l’imperativo del lavoro di squadra, lo spirito di sacrificio, l’impegno nel rispetto della “consegna” dell’ordine ricevuto, la fatica fisica e psichica. Il piacere più grande fu riconoscere che quando si è in difficoltà si può contare sempre sull’aiuto e il sostegno degli altri e non si è mai soli o lasciati indietro.

Tornai molto cambiato da questa esperienza. Se l’Università mi aveva fatto crescere intellettualmente, il Servizio Militare aveva contribuito a forgiare maggiormente sentimenti ed emozioni e anche senza troppe iperboli il senso di appartenenza al mio Paese al quale avevo giurato fedeltà e che avevo cercato di servire anche se, fortunatamente, in tempi di apparente pace.

Tornato mi ritrovai un po’ spaesato. Durante il Servizio Militare avevo responsabilità, un ruolo operativo e di comando per le stellette sulle spalline e anche, prosaicamente, un soddisfacente stipendio.

Ora ero alla ricerca di un nuovo destino. I compagni universitari, in gran parte, non erano partiti “soldati” ed erano già operativi in aziende o banche. Io avevo vissuto per 15 mesi in apnea e fuori dal mondo delle professioni. Prima di potermi mettere in gioco nel mercato del lavoro, arrivò una telefonata inaspettata. Stefano Podestà, il mio relatore di tesi, mi chiamò a nome del prof. Guatri per chiedermi se desiderassi partecipare ad un progetto sperimentale: la progettazione e realizzazione del primo Master in Direzione Aziendale. La decisione andava presa rapidamente ma il cuore, prima della mente, aveva già deciso.

Quando la mente rielaborò la scelta di vita che avevo intrapreso, si rese conto che mentre i miei compagni di corso, inseriti in contesti aziendali, maturavano, allora, remunerazioni che variavano dalle 250 mila alle 350 mila lire e durante il servizio militare il mio stipendio mensile fosse di 175.000 lire, la borsa di studio di perfezionamento didattico scientifico era di 125.000, saldata ogni sei mesi e senza assistenza mutualistica e previdenziale. Era però il cuore quello che comandava. Essere invitato a rimanere in Università, lo giudicavo un privilegio ed un onore incommensurabile. Iniziò quindi una nuova e permanente avventura, quella dell’accademia.

Entrai in SDA, la Scuola di Direzione Aziendale della Bocconi (oggi la Business School) impegnata nella formazione post universitaria e post esperienza.

In SDA, una delle prime persone a cui fui presentato fu il suo fondatore il professor Claudio Demattè. Claudio fu una folgorazione, il fuoco prometeo che lampeggiava nei suoi occhi illuminava subito non solo il nostro presente ma anticipava le sfide del futuro.

Su Claudio è stato scritto molto e molto ha dato al suo Paese ogni qualvolta si è occupato di risanare e rilanciare delle imprese come nel caso delle Ferrovie dello Stato, della RAI, della Cassa di risparmio di Calabria e tante altre.

Il mio rammarico è che Claudio non sia stato incaricato del Rettorato della nostra Bocconi. L’Università, oggi, sarebbe ancor più straordinaria e bella, di quanto lo è diventata. Claudio divenne, per me, non solo un Maestro ma un grande amico. Mi ricordo ancor oggi quando, una sera verso le otto, ci lasciammo, ognuno inforcando la sua bicicletta per rientrare a casa e il mattino mi veniva annunciato che mentre preparava la colazione per la sua amata figlia Margherita, il destino anticipava il suo viaggio verso un’altra meta, non terrena ma altrettanto impegnativa e sono certo molto trascendente.

In SDA Bocconi ho iniziato il mio percorso accademico. Ci veniva chiesto di essere molto “ambidestri” nel senso che da una lato dovevamo continuare a perfezionare le nostre conoscenze scientifiche, dall’altro aiutare ad organizzare, lanciare e far funzionare quello che divenne in assoluto il primo Master in Direzione Aziendale (oggi in Business Administration) offerto da una Università italiana e, allora, anche uno dei primi in Europa.

Fu una sfida incredibile. Il sottoscritto era Assistente dell’Area Marketing e in quel ruolo contribuiva a produrre materiale didattico e all’organizzazione dei corsi offerti. Nel secondo ruolo, invece di natura gestionale, dovevo contribuire alla promozione del Master. Tra le tante cose, pianificate allora per diffondere la conoscenza di un programma formativo estraneo alla cultura universitaria nazionale, mi presi la briga di andare a presentarlo nelle varie Università italiane, per lasciare già un germe nei loro discenti che rammentasse loro, che dopo la laurea e un po’ di esperienza aziendale, sarebbero potuti venire in Bocconi a perfezionare i loro studi per un rilancio professionale con ambiziose aspirazioni.

Mi rammento ancor oggi che molti Presidi di Facoltà, ai quali chiedevo il permesso di organizzare nel loro Ateneo la presentazione del nostro Master, accettavano spesso la richiesta solo allo scopo di potermi esprimere a voce il loro profondo dissenso per queste iniziative della Bocconi che giudicavano non ortodosse se non inutili, quasi dannose per la cultura scientifica di quei tempi.

E’ comprensibile intuire il mio sgomento e sbigottimento. Pensavo di contribuire a fare qualcosa non solo di innovativo ma anche meritevole ed utile mentre in realtà parte della comunità accademica universitaria italiana ci criticava. La storia, come al solito, lenisce tutto e ci ha dato ragione. Oggi tutte le Università offrono un portafoglio articolato di programmi Master che formano sui più disparati contenuti professionali.

Nel 1976, Claudio Demattè mi propose di andare negli USA, a Harvard, per studiare un po’ di più di quanto stessi praticando in Bocconi. Fu una esperienza straordinaria, non tanto perché per la prima volta vedevo nei prati e sugli alberi del Campus vivere in libertà tantissimi scoiattolini ma per il mondo che si aprì ai miei occhi. Credo di aver provato l’esperienza indescrivibile che provò Cristoforo Colombo quando approdò nelle terre del Nuovo Mondo. Gli USA ma in particolare Harvard mi fecero apprendere rapidamente che c’era un modo diverso di studiare ed apprendere ma anche di gestire l’Università. In quel periodo cercai di trasformarmi in una spugna, non solo cercando di apprendere il più possibile ma osservando i dettagli delle cose che potevo sperimentare.

Tornato in Italia, mi presi subito, con simpatia e un po’ di ironia, l’appellativo di Amerikano (con la K, come nel film di Costa Gravas) perché tentavo in ogni occasione di convincere chiunque a “rivoluzionare” tutte le cose un po’ ortodosse con cui mi confrontavo e sperimentavo in Bocconi.

Una delle prime piccole conquiste fu convincere il Direttore della Biblioteca di estendere l’orario di chiusura dalle 18.30, prima alle 22 e poi alle 23. Ad Harvard si studiava in Biblioteca sino a mezzanotte.

Che esperienza accademica ho vissuto in questi anni?

Dal mio ritorno dagli USA ho costantemente svolto, con una prospettiva ambidestra, sia un ruolo di ricercatore sia quello di intraprenditore.

L’attività intraprenditiva in SDA Bocconi

Nel 1977, dopo il ritorno da Harvard, lanciai il primo corso di Marketing Management in Italia. Un corso formativo per giovani quadri e manager, della durata di tre settimane, con la possibilità, in quella centrale, di optare per un approfondimento dei beni di consumo o per i beni industriali.

Fu un grande successo di partecipazione che dimostrò in SDA che fosse possibile lanciare un catalogo di corsi specialistici dedicati alle varie pratiche professionali della gestione aziendale.

Sulla base di tale lusinghiero risultato, lanciai nel 1983, un corso avanzato, denominato PMS, Programma di Marketing Strategico. Anche questa iniziativa fu molto apprezzata dal mercato a tal punto che il corso è stato offerto e partecipato sino al 2017, ininterrottamente per ben 34 anni.

La vera sfida mi venne lanciata da Claudio Demattè quando mi assegnò l’incarico di Direttore del Master in Direzione Aziendale. Era il 1980, avevo “solo 32 anni” e dovevo timonare e coordinare la corazzata della SDA.

La sfida fu davvero impegnativa. I conti economici del Master erano in profondo rosso e la prima cosa da fare era garantire equilibrio economico finanziario. Riuscimmo a conseguirlo raddoppiando e saturando le classi per abbattere i costi fissi. La seconda sfida fu l’internazionalizzazione del corso. La perseguimmo con due diverse manovre sequenziali. La prima, attraendo studenti europei desiderosi di vivere questa esperienza in Italia e in Italiano. La seconda manovra, più determinante, sollecitò l’utilizzo della lingua inglese in una delle due classi. In nessuna Università italiana si offriva l’opzione della frequenza con una scelta bilingue.

Ho gestito il Master, quale Direttore, per quattro anni e per i successivi sei sono stato anche Direttore della Divisione Master, che offriva tutti i programmi annuali e pluriennali quale il Master in Business Administration, il Corso Biennale in Economia e Gestione Aziendale e il Master in International Economics and Management.

Chiesi l’avvicendamento alla Direzione della Divisione Master nel 1991, dopo 10 anni di governo, a partire dal 1980, per dedicarmi allo sviluppo del Dipartimento di Marketing (Area Marketing) della SDA Bocconi. Negli 8 anni, quale Direttore dell’Area Marketing riuscii, con l’aiuto e la dedizione dei miei colleghi, a farla crescere significativamente, sino a farla primeggiare, sia per l’ampiezza del catalogo dei suoi corsi sia, in termini prosaici, per fatturato e margini di contribuzione.

 

Fare l’intraprenditopre significa occuparsi di tante cose

Mi piace rammentare i dettagli di alcune, soprattutto perché divertenti.

Le pigeon box

In quei lontani anni, il personale amministrativo in SDA Bocconi “staccava” alle 16. Alle 16.30 finivano invece le lezioni ed era consuetudine consegnare il materiale didattico per le esercitazioni del giorno successivo al termine delle lezioni. Risolsi il problema acquistando 200 cassette individuali delle lettere che, impilate nel corridoio dell’ala ovest in via Sarfatti 25, permettevano di rilasciare ad ogni studente messaggi e materiale, senza problemi e vincoli lavorativi di orario.

Dopo l’acquisto delle 200 cassette delle lettere venni chiamato dal Rettore di allora, il caro Prof. Gasparini e dal Direttore Amministrativo, il burbero dott. Resti che mi chiesero un po’ sorpresi e sbigottiti le ragioni di tale “non accademico” acquisto. Ancor oggi, nell’era delle e-mail, in tutti i Dipartimenti, sono assegnate anche ai docenti delle “pigeon box” per depositare materiale e comunicazioni scritte.

Le toghe e il cerimoniale per i diplomi di fine corso

La cerimonia di consegna dei diplomi ai nostri Master avveniva in modo anonimo, alla fine del corso, senza una cerimonia, consegnando semplicemente un lettere di attestato di frequenza.

Mi sembrava veramente non coinvolgente e poco emozionale per riconoscere l’impegno psico fisico sostenuto dai nostri Master in oltre 15 mesi di duro lavoro in Bocconi.

Per cambiare radicalmente, memore della mia esperienza a Cambridge, mi recai con il Geometra Di Blasi, responsabile dell’Ufficio Tecnico e mio complice in queste scorribande, in un negozio che produceva abiti e divise professionali e ordinai 300 toghe da Cancelliere del Tribunale. Anche in questo caso, quando arrivò la fattura all’Amministrazione dell’Università, fui prontamente convocato dal Rettore e dal Direttore Amministrativo che, sgomenti e preoccupati, si domandavano se volessi ospitare, in Bocconi, una sezione distaccata del Tribunale di Milano.

In realtà, con quelle toghe, organizzammo in Aula Magna, la prima Cerimonia di consegna dei Diplomi Master. Davanti ai genitori, parenti e amici dei nostri discenti, fece ingresso, nella sorpresa collettiva, con un sottofondo di musica, il corteo del corpo docente seguito da quello dei discenti, tutti indossando la toga. Scorsero molte lacrime per l’emozione e la gioia di quel pubblico e forse anche qualche lacrima sulle nostre guance.

Il prof. Gasparini, al termine della cerimonia, mi abbracciò e mi comunicò non solo la sua comprensione per la mia ardita iniziativa ma anche la commozione che aveva provato.

Oggi in tutte le sessioni di tesi e nelle cerimonie di laurea, i nostri laureati hanno il piacere, anche solo per un giorno, di indossare la toga con i colori del loro corso che segnalano la conclusione del loro percorso di studio, forse sofferto ma anche tanto vissuto e gradito.

 

L’assunzione di Sally Smith

Internazionalizzare il Master richiedeva anche un eccellente dominanza della lingua inglese. Personalmente penso di praticare più che la lingua inglese, un idioma che si potrebbe definire “international english”. Avevo bisogno di una collaboratrice di madre lingua. Per sorte e fortuna conobbi Sally Smith, una ragazza inglese che viveva a Milano. Non ci pensai neppure un minuto. Per aggirare tutti i vincoli della burocrazia, la assunsi con un contratto, come si dice oggi, a tempo determinato. Anche in questo caso fui convocato prontamente in Rettorato per un liscebusso e per comunicarmi che stavo creando un precedente e un problema complicatissimo poiché avevo assunto una “extra comunitaria” per lo status, allora, dell’Inghilterra, di paese non comunitario (come lo è ritornata, incomprensibilmente, in questi tempi).

Il precedente suscitò qualche preoccupazione e qualche sorriso ma Sally Smith divenne la prima collaboratrice internazionale ad operare in Bocconi. Oramai ero considerato un trasgressivo impenitente, da controllare a vista.

La Lega Internazionale delle Business School Europee

Il terzo fatto che desidero rammentare, tra le tante piccole cose fatte, fu l’inizio della nostra visibilità sul “mercato” internazionale. Nel 1981, la SDA Bocconi e altre importanti Business School europee: l’Insead e l’ISA in Francia, la London Business School e la Manchester Business School in Inghilterra, lo IESE in Spagna, l’IMEDE’ (oggi IMD) in Svizzera, la Rotterdam Business School in Olanda e la Bocconi per l’Italia diedero vita alla Lega delle migliori Business School (per autoproclamazione). L’intento era di diffondere in Europa la cultura dei Master in Business Administration, allora estranea nei nostri ordinamenti universitari e quindi anche non nota ai cittadini europei. Per diversi anni, organizzammo delle presentazioni nelle capitali e nelle grandi città europee. In seguito, prendemmo coraggio e sbarcammo anche a New York, nella tana del lupo, per far concorrenza al Paese che i Master li aveva ideati per primo. Fu il primo passo del processo di internazionalizzazione della Bocconi.

 

La realizzazione della prima sede della SDA Bocconi

Un incarico di cui vado particolarmente fiero fu quando mi venne assegnata la responsabilità di coordinare tutto il progetto di realizzazione della nuova sede della SDA Bocconi. La sede originale, ricavata al piano terra e al primo piano dell’ala ovest dell’edificio storico in via Sarfatti, progettato dall’architetto Pagano, nell’anteguerra, non era più sufficiente. La crescita esponenziale delle nostre attività richiedeva una sede adeguata. Su un terreno in via Bocconi, al fianco del Pensionato Studenti, venne realizzato il nuovo edificio destinato alla SDA e progettato dall’Ingegnere Ceretti.

Con l’Ingegner Ceretti e il Geometra di Blasi costituimmo un team che fu capace di concludere il progetto nei tempi previsti e di realizzare uno spazio innovativo per quei tempi e ancor oggi funzionale. Progettammo aule ad anfiteatro più idonee per favorire l’interazione tra i discenti, spazi di lavoro per i team, in cui si suddivideva l’aula, per potenziare la capacità di lavoro di gruppo, creammo le prime aule informatiche mentre il corpo docente finalmente disponeva di spazi individuali, democratici e funzionali. Appresi, durante quella esperienza molto particolare, l’importanza di occuparsi dei dettagli. Dedicammo attenzione alla scelte cromatiche, con diversi toni e sfumature per rendere gli spazi anche un po’ emozionali. Insistetti affinché sin dalla fase di progettazione fosse richiesta l’abitabilità per l’ampio garage a piano terra e la predisposizione, in fase di costruzione dei sistemi di riscaldamento e di condizionamento. Le nostre attività crescevano molto rapidamente e mi rendevo conto che quanto prima avremmo avuto la necessità di nuovi spazi. Cosa che avvenne molto rapidamente. Occuparsi dei dettagli non risponde solo all’adagio che “evil is in the detail”, bisogna porre attenzione ad ogni cosa, non solo occuparsi dei cromatismi, ma dell’architettura di interni, del design dei mobili, delle lavagne, progettate con tecnologia revolving, dei complementi di arredo, del paesaggio esterno, dedicato al verde. Riuscimmo anche a convincere il Comune di Milano a farci realizzare un tunnel per collegare il nuovo edificio a quelli dell’Università per facilitare i trasferimenti tra le due sedi. Chissà se il Geometra di Blasi, a distanza di tanto tempo, si rammenta che ponemmo attenzione anche alla scelta dei mattoni. Alla fine scegliemmo un manufatto di forma corrugata apparentemente imperfetta. Credo che i mattoni selezionati siano ancor oggi belli e attuali perché arredano e creano delle gradevoli discontinuità al tatto ed ottiche anche nel nostro Faculty Club.

Il nuovo edificio della SDA, a forma di pagoda, divenne una icona fotografata, abbellita da una scultura di Pomodoro e identificativa della sede della Scuola.

Fu in quella occasione che compresi anche l’importanza ed il significato iconico che può assumere la forma di un edificio, nella prospettiva dei discenti, dei docenti e dei cittadini. Quando, dopo qualche anno, si iniziò a pensare alla costruzione di un edificio in via Roetgen per accogliere i Dipartimenti della Faculty, ci venne presentato un progetto che prevedeva la realizzazione di un edificio che riproduceva in orizzontale una E. Corsi da Nanni Pavese, allora,  nostro bravo e disponibile Consigliere Delegato per convincerlo che, essendo, la Bocconi già qualificata da diverse firme autorevoli di architetti: Pagano per l’edificio storico di via Sarfatti, Muzio che costruì il Pensionalo e gli edifici in via Gobbi, Reggiori che realizzò la Chiesa, Ceretti, la SDA, Gardella , il Velodromo, avremmo dovuto continuare in questa prospettiva e realizzare qualcosa di veramente originale ed unico. Tale scelta avrebbe qualificato il quartiere e sarebbe stata gradita in particolare dai cittadini milanesi. Nanni Pavese condivise il suggerimento e passò subito dai principi all’azione. Organizzò un concorso internazionale e venne scelta la proposta dello Studio Grafton, un team di architette irlandesi. Come sanno fare le “ragazze”, realizzarono qualcosa di unico. L’edificio di via Roetgen è costantemente visitato da turisti, cittadini e addetti ai lavori. Tutti affascinati per le soluzioni progettuali e per quelle estetiche. Non molti sanno che è un edificio “contro intuitivo”, costruito dall’alto verso il basso piuttosto che dal basso verso l’alto. Molti visitatori vengono in Bocconi per fotografare e farsi fotografare davanti alle vetrate dell’Aula Magna su un pozzo di circa 18 metri di profondità. La Bocconi, a partire dal 2018, con il rilascio di una nuova Residenza per gli Studenti che fa parte del nuovo progetto edilizio, questa volta assegnato allo Studio giapponese Sanaa, permetterà di qualificare l’architettura del quartiere con un totale di ben sette firme architettoniche. Anche a sud, della nostra bella città, brilla il piacere e l’emozione generati dai contrasti di immagine suggestionati del design edilizio.

 

L’investitura rinunciata

Concludo il paragrafo dedicato all’attività intraprenditiva in SDA, facendo una confessione ad un mio Maestro, il prof. Vittorio Coda. In quegli anni Claudio Demattè doveva lasciare la Direzione della Scuola perché, come ho ricordato, venne chiamato a nuove e ardite responsabilità. Vittorio mi venne a trovare in ufficio per propormi di assumere la guida della SDA. Era forse il sogno della vita soprattutto per l’onore di avvicendare Claudio, pur sapendo che sarebbe stato difficile imitarlo. Avevo, in quei tempi, contribuito a creare una impresa di consulenza di direzione, della quale parlerò fra qualche pagina. Per la prima volta nella mia vita mentii e dissi a Vittorio Coda che non mi sentivo pronto per quella sfida. In realtà vivevo un dilemma deontologico. Non mi sembrava etico occuparmi della Direzione della SDA, facendo contemporaneamente l’imprenditore in una iniziativa privata anche se competitivamente non conflittuale. Preferii mentire piuttosto che violare quel codice di condotta rispetto al quale mi aveva educato mio Padre. Fu una scelta dolorosa, lacerante. Non potevo occuparmi della creatura che avevo contribuito a creare e a far prosperare. Con questa confessione postuma, chiedo scusa all’amico Vittorio Coda per essermi sottratto ad una responsabilità sempre agognata. La sua proposta fu molto apprezzata quale segno della sua stima. Sono comunque in pace con me stesso per quella sofferta rinuncia perché ho mantenuto retto il timone dell’onestà intellettuale, del coraggio delle scelte, senza ma e compromessi.

 

L’attività intraprenditiva in Università Bocconi

L’attività intraprenditiva, iniziata in SDA Bocconi, proseguì anche in Università Bocconi. Nel 1991 lanciai l’I-Lab, il primo Centro di Ricerca dedicato alla Digital Economy. Ricordo ancor oggi l’Aula Magna affollata all’inverosimile, in occasione dei nostri convegni, per condividere i risultati delle prime ricerche sull’evoluzione ed affermazione della più grande e recente scoperta del secolo passato: Internet. Internet ha cambiato la nostra vita e il modo con cui lavoriamo e ci relazioniamo.

Allora anticipammo la riflessione sugli impatti che Internet avrebbe generato per la Società, le Istituzioni, le Imprese e i singoli Cittadini

 

Nel 2007 creammo, con un finanziamento di Banca Mediolanum, il Customer & Service Science Lab, un centro di ricerca dedicato allo studio del comportamento dei clienti delle imprese di servizio. Nel 2012 lo fondemmo nel CERMES, Centro di Ricerca su Marketing e Servizi che ho coordinato sino al 2018. Forse siamo stati, anche in questo caso, tra i primi in Italia ad affrontare temi innovativi ed ancora significativamente attuali quale l’evoluzione dei Sistemi di distribuzione nell’era dell’e-commerce o del Silver Marketing e del Active Ageing, il grande cambiamento strutturale in atto nel Pianeta che sta trasformando l’umanità in un mondo con una grande presenza di cittadini senior, con implicazioni non adeguatamente comprese e affrontate dalle Istituzioni e dalle Imprese.

L’attività intraprenditiva di cui vado molto fiero fu invece la creazione in Bocconi, nel 2009, del primo Dipartimento di Marketing, che presumo sia ancor oggi anche l’unico in Italia. Fui motivato, in tale decisione, dalla qualità di ricerca espressa dai miei colleghi più giovani che avevano iniziato a produrre pubblicazioni apprezzate dalle riviste internazionali più competitive. Il Rettore di allora, Guido Tabellini, condivise il mio progetto e mi aiutò anche a superare i vincoli imposti dal Ministero della Pubblica Istruzione e Università per la costituzione del nuovo Dipartimento Scientifico Disciplinare.

Nel 2009, diventammo ufficialmente l’8° Dipartimento della Bocconi che completava il portafoglio dei suoi saperi disciplinari. Ci proponemmo degli obiettivi ambiziosissimi, crescere nei ranking internazionali quanto a pubblicazioni scientifiche e iniziare ad arricchire la Faculty, cooptando docenti sul mercato accademico internazionale.

La prima soddisfazione concreta e la conferma che il progetto era fondato su premesse concrete fu il riconoscimento attribuitoci, dalla Agenzia Ministeriale per l’Università, quale migliore Dipartimento Universitario italiano, nel cluster dei Dipartimenti medio piccoli. In Europa iniziammo invece a scalare costantemente delle posizioni.

Oggi il nostro Dipartimento, si è avvinato in Europa alla 5^ posizione e rimane uno dei migliori anche nelle classifiche universitarie italiane.

 

 

Qualcuno si chiederà perché nella vita si fanno molte cose delle quali spesso nessuno è riconoscente e se ne ricorderà.

La risposta è semplice perché devono essere fatte, perché è importante farle, perché a farle spesso ci si diverte, perché si dona qualcosa di sé agli altri e per poter dire, come sto scrivendo: c’ero anch’io e ho lasciato anch’io un piccolo segno.

 

Quattro anni all’Università della Calabria

Quando si vince il concorso per Professore Universitario di Prima Fascia, si viene nominati prima Professore Straordinario e dopo tre anni, una commissione di pari, certifica l’idoneità per divenire Professore Ordinario. Tra le varie sedi disponibili per il mio Straordinariato, scelsi L’Università della Calabria ad Arcavacata di Rende, alla periferia della città di Cosenza. Mi resi subito conto, appena arrivato e familiarizzato con il territorio e con i colleghi che l’Università aveva grandi aspirazioni di crescita e di affermazione rispetto alle altre Università del Mezzogiorno. Mi venne subito chiesto di progettare un nuovo corso di laurea in Economia Aziendale, rifacendomi all’esperienza maturata in Bocconi e venni anche nominato Direttore di Dipartimento. In quei quattro anni riuscimmo a fare molto cose. Quella di cui sono più orgoglioso fu lo sviluppo di una squadra di giovani e talentuosi Calabresi. Eravamo riusciti, svolgendo delle attività formative per quadri e dirigenti della Regione Calabria, ad accumulare delle risorse finanziarie che destinammo alla formazione di alcuni giovani collaboratori, invitandoli a perfezionare i loro studi a livello internazionale. Mi piace, tra i molti, ricordare Michele Costabile, instancabile e acuto ricercatore. Michele, un amico al quale sono fraternamente affezionato, oggi è anche lui un “maturo” Professore Ordinario che ha garantito un generoso ed importante contributo alla crescita e all’affermazione della sua Università. Senza di lui molte cose non si sarebbero mai realizzate ad Arcavacata.

L’esperienza calabrese ha rafforzato in me la convinzione che il Mezzogiorno vanti una risorsa preziosa, di grande valore e rara: cervelli e talenti. Il dramma della Calabria e di altre Regioni meridionali è la diffusa e strisciante presenza della criminalità. Solo sradicandola, in profondità dal tessuto sociale ed economico, quei talenti potranno rapidamente cambiare la cultura dominante e generare benessere per la propria collettività, trasformando il nostro Mezzogiorno in vera terra promessa.

Della Calabria ricorderò sempre i profumi delle sue Ginestre, le cui fragranze, al tramonto, scendono dai monti sino al mare.

 

 

 

 

 

 

L’attività di Professore  

Un professore universitario dovrebbe fare due cose, disseminare conoscenza attraverso l’insegnamento e produrre conoscenza.

La produzione scientifica

Sono sempre stato intimorito dalla parola “ricerca scientifica”. Mi sono sempre chiesto se in realtà il sottoscritto abbia contribuito a generare della conoscenza o sia stato solo un egregio divulgatore.

La ricerca che ha praticato la mia generazione è molto diversa rispetto a quella generata, oggi, dai colleghi più giovani.

La ricerca in questi ultimi anni si è molto specializzata e orientata ad una rigorosa misurazione di specifici fenomeni, spesso con l’ausilio di metodi quantitativi e con puntuali sperimentazioni. E’ quindi una ricerca molto speculativa e sofisticata. Anche se apparentemente può risultare astratta o non rilevante per le decisioni contingenti, esprime la capacità di offrire una risposta ad una domanda di ricerca per generare una conoscenza inedita. I risultati di tali ricerche sono apprezzati e riconosciuti in particolare se sono accettati in una rivista scientifica di livello A o A+.

I nostri giovani ricercatori, sono inoltre selezionati in base al conseguimento di un Ph.D. Program, in una prestigiosa Università. I Ph.D. sono corsi quadriennali, a cui si accede in modo molto selettivo, dopo la laurea e un po’ di esperienza accademica, per apprendere l’arte del metodo di ricerca.

Un Assistant Professor, dopo il conseguimento del Ph.D., ha poi quasi otto anni per dimostrare le sue qualità di ricercatore e nel rispetto del principio “die or publish” viene confermato in ruolo solo se riuscirà a dimostrarlo qualitativamente e quantitativamente, attraverso le sue pubblicazioni.

Ho fatto questa premessa per spiegare il motivo per cui molti dei docenti della mia generazione non vantano molte pubblicazioni internazionali. Ai nostri tempi non esistevano i Ph.D. Program, i corsi di dottorato sono stati attivati solo negli ultimi anni in Italia. Inoltre si iniziava il proprio progetto di ricerca avvalendoci dei consigli dei nostri “maestri” ma con un metodo prevalentemente “do it by your self”.

Io appartengo a questa categoria di ricercatori autodidatti. Ho scritto più o meno 35 libri, quale autore o coautore, svariati articoli e working paper ma nessun articolo pubblicato in riviste A o A+. Tutte le mie pubblicazione, con l’eccezione di un libro e di qualche articolo, sono inoltre in lingua italiana.

Anche se si deve sempre dire che “non è mai troppo tardi” concludo così il mio progetto di ricerca ma non mi sento a disagio in termini di autostima e non me ne duole. I nostri, erano altri tempi e le regole del gioco, nel mondo accademico, erano diverse.

Sono molto soddisfatto invece dei libri che ho scritto e presumo che abbiano contribuito a sistematizzare i contenuti disciplinari e forse ad aiutare studenti e lettori professionali a condividere un metodo per sostenere e giustificare le loro decisioni.

Un libro, di un certo rilievo, fu Marketing Strategico pubblicato nel 1986. Fu il primo testo che introduceva, in Italia, questa prospettiva del Marketing e uno dei primi pubblicati, su tali contenuti, non solo in Italia ma, in analisi comparata, a livello internazionale.

Il testo ebbe subito un impressionante successo editoriale. Con la stessa sorpresa dell’Editore ne furono vendute diverse migliaia di copie e con mia grande soddisfazione, nelle imprese più organizzate ed avanzate di allora, furono creati anche i primi “uffici di Marketing Strategico”.

Desidero però raccontare il back stage di questo volume. Avevo iniziato a dedicarmi alla sua compilazione appena tornato dagli USA. Ad Harvard avevo frequentato il corso di Dereck Abell, Strategic Market Planning e letto le prime dispense di Michael Porter sulle quali pubblicò l’apprezzato e innovativo volume Competitive Strategy. Ero rimasto molto impressionato da quei lavori e scattò in me la scintilla che fosse possibile disegnare un framework che sistematizzasse i contenuti scientifici emergenti per normalizzare il processo decisionale percorso da un’impresa nel momento in cui avesse desiderato definire la sua strategia di marketing, su basi meno intuitive, più ragionate e giustificate. Lavorai accanitamente per quattro anni, rinunciando alle vacanze e trascurando un po’ la mia famiglia e finalmente riuscii a mettere la parola “end” nell’ultima pagina del manoscritto.

Allora era prassi, quando un giovane ricercatore, concludeva un progetto di ricerca, sottoporlo al giudizio critico dei docenti senior del suo Istituto disciplinare di appartenenza. Lo feci anch’io con la trepidazione di un padre che si appresta a presentare in pubblico il proprio figlio. I “miei maestri” di allora ridussero subito i miei entusiasmi. Mi dissero che un giovane ricercatore non poteva produrre un’opera così sistemica. Che il Marketing Strategico non era cosa nota ne presente nella nostra Disciplina. Che certi approcci non si conciliavano con l’allora stato dell’arte e risultavano poco comprensibili. Ravvisavano comunque delle parti interessanti e innovative e mi invitarono a stralciare alcuni capitoli per trasformarli in una pubblicazione. Nel 1984 pubblicai, nei tipi di Giuffrè, Definizione e Segmentazione del Mercato.

Nel 1986, vinto il concorso per Professore Ordinario e quindi più autonomo, pubblicai finalmente con Etas Libri, la prima edizione di Marketing strategico: Gestire il mercato per affermare il vantaggio competitivo. In seguito, la mia Università, nel 1995, per questo lavoro mi premiò per il suo valore scientifico.

Questa esperienza mi insegnò che, spesso, se si anticipano troppo i tempi si può rischiare di non essere compresi ma che la determinazione e la perseveranza alla fine premiano sempre e il “mercato” ne riconosce il valore.

Molti dei libri che ho compilato hanno quasi sempre tentato di colmare, almeno in Italia, un vuoto nella letteratura scientifico manageriale. Pricing fu pubblicato nel 1989. Un testo sulle strategie e le tattiche per la definizione del prezzo di vendita. Marketing globale, nel 1991, fu forse uno dei primi volumi che affrontava e sistematizzava l’emergente fenomeno della globalizzazione dei mercati e delle imprese.

Tralasciando, temporalmente, altri lavori, nel 2000 pubblicai l’Impresa Pro Attiva, questa volta con i tipi di McGraw Hill. L’Impresa Pro Attiva è un testo che amo ancor oggi perché fu un tentativo apprezzato di ripensare l’impresa attorno a tre distinti paradigmi, quello della Customer Based View (elaborato con l’amico fraterno Bruno Busacca, oggi Associate Dean che continua a fare tanto per la Bocconi), quello della Competitive Based View (elaborazione personale della dinamica competitiva) e della Resource Based View  di Robert Grant.

Su quest’onda, nel 2003, rielaborai e conclusi Competition  Based View  che ho successivamente ampliato e pubblicato anche in edizione internazionale con i “tipi” di Palgrave con il titolo Competitive Strategies, coinvolgendo quale co autore  il bravo Alessandro Arbore. Questo testo, con qualche presunzione, ritengo sia un lavoro ancor oggi valido ed intrigante per declinare il confronto competitivo in una prospettiva originale che lo riconduce a tre diversi stati di natura della concorrenza: il Gioco di Movimento, il Gioco di Imitazione e il Gioco di Posizione.

E’ un modello che normalizza dinamicamente l’evoluzione della concorrenza ed il comportamento che le imprese dovrebbero adottare per sostenerli ed affrontarli con successo. Per ciascuno dei tre Giochi competitivi, lo sforzo fu quello, attraverso l’osservazione empirica approfondita delle strategie perseguite dalle imprese in diversi settori, di suggerire anche una tassonomia delle manovre “offensive e difensive” adottabili in funzione dell’intento strategico che guida la visione di un’impresa e lo specifico Gioco che deve affrontare.

Per non prolungarmi ed essere tedioso tralascio di citare altre pubblicazioni, alle quali sono comunque affezionato e i filoni di ricerca percorsi in tutti questi anni. Altri titoli possono essere letti, per curiosità, nel c.v. tradizionale.

Mi fa veramente piacere ricordare invece che la ricerca era fondata sul metodo induttivo, per stabilire una regola attraverso l’osservazione dei singoli casi e deduttivo per spiegare invece una conclusione frutto di premesse generiche, partendo quindi dal generale per arrivare ad una spiegazione particolare. La differenza rispetto all’approccio scientifico odierno sta nel fatto che era più sistemico e meno puntuale e indubbiamente meno rigoroso nella misurazione quantitativa dei fenomeni.

Questi libri hanno comunque aiutato i lettori a condividere un metodo rigoroso per la sequenzialità dei processi e dei modelli che proponeva, risultando utili per apprendere le logiche che governano i mercati delle imprese e gli strumenti per sostenere e giustificare le decisioni da adottare e condividere.

Molti di questi libri non erano testi universitari imposti agli studenti e le numerose copie vendute mi hanno rassicurato che forse erano stati genuinamente apprezzati dalle persone più importanti: i loro lettori, perché sono stati sempre scritti per loro.

Parlando di libri mi piace ricordare, per concludere questo paragrafo, che in occasione di un convegno a cui partecipai quale relatore, alla conclusione dell’intervento fui avvicinato da alcuni partecipanti che, con simpatia e affetto, mi dissero che era un piacere conoscermi perché avevano letto e studiato sui libri di mio Padre. Non ebbi il coraggio di confessare che in realtà ero sempre io a tediarli con i miei pensieri scritti e che, come dice Vasco Rossi, “sono ancora qua”.

 

 

 

 

L’insegnamento

Insegnare mi è sempre piaciuto. Insegnare in un’aula manageriale con persone esperte è una sfida perché ci si confronta con chi pratica il management. L’apprendimento in tali casi, spesso, è a due vie, si trasferiscono conoscenze al discente ma si impara anche molto dalla sua esperienza. Ciascuno insegna qualcosa all’altro. Alla fine di una giornata in SDA si usciva dall’aula esausti ma convinti di aver dato tanto ma anche ricevuto molto.

Insegnare nei corsi universitari “undergraduate e graduate” è stato altrettanto stimolante e piacevole.

Ho sempre rifiutato l’idea che gli “studenti dell’anno precedente” fossero migliori di quelli dell’anno successivo. Il bello di insegnare a giovani ed ancora inesperti cittadini, in realtà, è proprio riconoscere ed apprezzare le diversità intellettuali, culturali e comportamentali che li distinguono. Ciò che da veramente gioia è vedere sui loro volti e nei lampi dei loro occhi la condivisione o il dissenso delle cose raccontate, il piacere del contraddittorio, l’apprezzamento dell’apprendimento. In tutti questi anni ho incontrato migliaia di studenti, qualche centinaio l’ho anche laureato. Alcuni sono divenuti molto importanti. Uno di costoro, quando ci incontriamo mi ricorda sempre che nel corso di International Marketing gli avevo dato solo 25/30. Non sapevo che allora studiasse e contemporaneamente lavorasse a tempo pieno per mantenersi agli studi. Quel 25 non gli ha fatto comunque male considerando le responsabilità e i prestigiosi incarichi che ancor oggi ricopre, in una impresa tra l’altro molto internazionalizzata.

Molti, forse più anonimi nei ricordi ormai lontani ma certamente non meno importanti per umanità e senso dell’impegno, mi scrivono frequentemente a distanza di tempo. Quelle parole e quei sentimenti di apprezzamento che mi comunicano, mi commuovono profondamente. So che non mi hanno dimenticato e anch’io, nello zainetto dei ricordi, che porterò sempre con me, conservo con grande affetto tutte le loro lettere.

I nostri studenti sono davvero le persone più importanti della Bocconi. Senza di loro non esisterebbe l’Università. Sono, nella stragrande maggioranza, delle persone speciali che hanno lasciato e che lasceranno un segno della loro esistenza perché oltre a lavorare per se stessi sentono la responsabilità di lavorare ed impegnarsi anche a favore degli altri.

Li vediamo giovani ed ingenui, all’inizio, nelle nostre aule e li lasciamo andar via alla conclusione del ciclo di formazione, formati e pronti a spiccare il volo per il viaggio guidato dal loro destino.

I loro occhi e i loro sorrisi, quando ci lasciano, sono un dono prezioso che ci incoraggia e ci colma di gioia e felicità.

Molti di loro sono, come mi piace sempre ricordare nel discorso di commiato della “last session” alla fine del corso, dei produttori di felicità perché le cose migliori che saranno capaci di realizzare saranno utili e di grande giovamento non solo a loro ma soprattutto per la collettività e loro ne saranno consapevoli e profondamente orgogliosi.

La considerazione più spontanea alla conclusione del mio ciclo accademico è riconoscere che sono stati anche i miei studenti che hanno contribuito ad aggiungere vita ai miei giorni.

 

L’attività imprenditoriale

Nel passato, quando ero più giovinetto, mi sono sentito spesso ricordare che tra il “dire e il fare c’è di mezzo il mare” e che molte cose sono “accademiche” e quindi, come si dice in gergo, non operazionabili.

Nel 1992, con Silvio Vicari, amico e collega, abbiamo costituito una società di Consulenza di Direzione che si chiama tuttora, con un acronimo, VVA, in esteso Valdani Vicari & Associati.

In realtà molte imprese ci chiedevano proprio di sperimentare, nella loro gestione, i principi paradigmatici e le pratiche che scrivevamo nei nostri libri e quelle che descrivevamo nelle aule della Business School.

Abbiamo festeggiato un quarto di secolo di vita di VVA, l’anno passato. Abbiamo superato ed affrontato le alterne congiunture economiche, garantendo sostenibilità alla nostra impresa. Oggi non siamo più così operativi come in passato ma orgogliosi del lavoro che viene continuato dai nostri soci e partner che sono innanzi tutto non solo degli stimati professionisti ma soprattutto dei cari amici. Cito solo le iniziali dei loro nomi: T.C., R.C., C.G, E.G., G.P., GL.C., F.I., P.H., M.P., M.J., V.C.

VVA oggi è, merito loro, un Gruppo strutturato che aggrega nella sua famiglia quasi cento professionisti. VVA Bruxelles, la sede internazionale, assiste le Agenzie delle diverse Commissioni dell’Unione Europea nel produrre ricerche, documentazione e conoscenza utili per le delibere europee.

VVA Ricerche è una società certificata di ricerche di mercato. I suoi ricercatori quantitativi e quelli di formazione sociologica e psicologica aiutano le imprese a scoprire gli insight più significativi e remoti per servire al meglio i loro clienti.

VVA Expert Opinion, sul fronte della consulenza dei pareri autorevoli è un benchmark nell’ambito della pratiche di Transfer Pricing mentre sul fronte della consulenza di direzione, VVA Consulting affianca veramente le imprese non solo per generare suggerimenti e soluzioni ma per realizzarli concretamente, operando direttamente con gli imprenditori o con il management, condividendo l’onere della sfida competitiva.

Mates4Digital e Indigo sono entrate solo recentemente nel Gruppo. Mates si occupa di comunicazione sociale e di influencer. Sono un team avanzato per aiutare le imprese a comunicare attraverso i nuovi media digitali. Gli “ingegneri” di Indigo invece hanno sviluppato una piattaforma di Intelligenza Artificiale per sostenere le ChatBot, le nuove modalità di interfaccia e di machine learning per relazionarsi innovativamente ed efficientemente con i propri clienti e più in generale con i cittadini.

Anticipo ed è confermato dalle evidenze che, prosaicamente, non ci siamo certo arricchiti da tale attività imprenditoriale e lo dichiaro, paradossalmente, con un certo orgoglio. Ci siamo invece molto arricchiti in termini di conoscenze ed esperienze che sono state fondamentali anche per la nostra attività accademica. VVA è stata per me un po’ come lo è la Clinica Universitaria per un medico. Il luogo ove capire come le imprese operano e come sia possibile “aiutarle od assisterle nel loro sviluppo”.

Non ci siamo arricchiti perché lo spirito di gestione della Società, sia quando ce ne occupavano direttamente sia oggi, è sempre stato guidato dal principio irrinunciabile che le persone vengono prima di tutto.

Lo posso dichiarare con orgoglio. Non abbiamo mai dovuto assumere un provvedimento nei confronto dei nostri collaboratori. Li abbiamo sempre aiutati a crescere professionalmente, assegnando responsabilità dirette che permettessero loro di conseguire una ricca e stimolante esperienza sin dal primo giorno. Abbiamo perseguito il principio, forse non economico, della ridondanza organizzativa, dotando la Società di risorse in eccesso rispetto al fabbisogno. Ci sembrava in tal modo di contribuire al benessere dell’economia realizzando nuovi posti di lavoro anche se ciò, consapevolmente, poteva gravare sulla struttura dei costi della Società.

Gli attuali soci e partner di oggi sono tra l’altro gli apprendisti consulenti di ieri. A loro siamo debitori per la loro fedeltà e per il loro affetto. Le loro capacità e la loro dedizione stanno facendo sempre più grande ed importante l’intrapresa e il Gruppo VVA.

L’onere, che la Società si è sempre assunto, è stato di garantire non solo una soddisfacente crescita professionale ma anche quella sicurezza economica, necessaria per sostenere il progetto personale e familiare dei nostri collaboratori ed amici.

Siamo riusciti a sopravvivere e a svilupparci in questo quarto di secolo, in un contesto nazionale difficile, in un mercato dei servizi consulenziali, dominato da grandissime multinazionali, senza aiuti o coperture da parte di chicchessia, solo in virtù della qualità delle cose proposte e realizzate.

I risultati conseguiti, lo rammento, sono solo merito del contributo, della profondità di pensiero e della dedizione di tutti coloro che operano in VVA e continuano a condividere il progetto iniziale di due professori.

 

La Famiglia

Ho scritto e raccontato di molti accadimenti del mio percorso retrospettivo accademico e professionale. Non ho mai citato la parte fondamentale della vita di ognuno di noi: la sua famiglia.

Ho avuto la fortuna di incontrare una ragazza, Valeria, che mi affascinò non solo per la sua bellezza e il suo charme ma per la sua intelligenza, molto più riflessiva e profonda della mia. Abbiamo iniziato la nostra avventura il 24 dicembre del 1978 e sposarla è stato il più bel regalo di Natale che abbia mai ricevuto. Sono quarant’anni di sodalizio nuziale. Recentemente ho letto il pensiero di un portatore di opinioni che dichiarava che era inimmaginabile vivere 40 anni con la stessa consorte. Sposarsi in realtà significa predisporsi ad un viaggio che, per definizione, è lungo. Non si sale su una barca per sbarcare nel primo porto ove si approda. Si governa e si timona la barca verso una destinazione che non è nota e si rinnova costantemente, anche, se ha volte, i marosi possono rendere impegnativa la navigazione. Le famiglie felici sono infatti costruite con i mattoni dell’amore e della comprensione.

Le nostre figlie, Elena e Rubina non sono l’ostaggio che ci ha tenuto insieme. Sono state il dono più bello che abbiamo ricevuto dalla nostra vita. Se dovessi rimpiangere qualcosa, rivendicherei di non aver dedicato a loro tutto il tempo con cui avrei dovuto accompagnarle e condividere le sfide della loro crescita di donne.

Elena, felicemente sposata giovanissima con Alessandro, ci ha regalato due bellissime e incredibili nipotine, Isabella e Bianca. Ogni qual volta le vedo ringrazio il Creatore per questo nuovo dono di cui possiamo godere perché, come dice il poeta, “i fiori, le stelle e i bambini sono le cose che ci sono rimaste del Paradiso”. Quando vedo Elena, Alessandro, Isabella e Bianca tutti insieme, ridere e giocare, comprendo ancor di più l’importanza e il significato della famiglia e dei suoi valori fondanti.

Anche Rubina ci ha resi nonni del bellissimo Teo. Ha incontrato Andrea, il ragazzo della sua vita, con il quale ha iniziato a navigare nei mari della Felicità e delle responsabilità per la sua nuova Famiglia. E’ giovane, molto responsabile, scrupolosa e attenta ai dettagli.  Si sta affermando nel complesso e dinamico mondo del Fashion e ha già molte responsabilità. Rubina ha fatto tutto da sé, in autonomia, senza ricevere o richiedere aiuti e sostegni. Ne sono molto orgoglioso.

Maria Teresa di Calcutta ricordava che “l’amore comincia a casa: prima viene la famiglia poi tutto il resto”. Ritornare a casa è un momento di felicità e di amore che sa sempre rinnovarsi nel cuore di ogni donna ed uomo.

 

 

Le passioni della vita

La prima è la lettura. Quando ero alle Superiori, al secondo anno, venni bocciato perché ero uno studente indisciplinato e poco dedito allo studio. Un pomeriggio, bighellonando in quartiere, passai davanti alla sezione della Biblioteca Comunale, ospitata nella Scuola Elementare. Vi entrai casualmente e altrettanto casualmente scelsi un libro. Era Furore di John Ernst Steinbeck. Fu una immersione emozionale inimmaginabile nelle sofferenze della vita americana durante la grande crisi degli anni 20. Rispetto alle prove e alle sofferenze descritte nel libro, compresi quanto inconsistenti e modesti risultavano i miei problemi di adolescente. Divenni, nello stupore degli addetti della biblioteca, un suo giovane ma assiduo frequentatore. Dimenticavo di ricordare che divenni anche un buon e disciplinato studente che, a volte, preferiva leggere più che uscire troppo assiduamente con gli amici. Da quel giorno non ho mai smesso di leggere qualsia cosa abbia avuto la fortuna di passarmi per le mani. Leggere un romanzo può far sognare, emozionare, commuovere, rafforzare dei valori, immedesimarsi negli accadimenti, apprendere il piacere dell’etimologia delle parole e la profondità dei pensieri che si incidono da soli nella memoria. I libri universitari, quelli divulgativi e di apprendimento scientifico generano il piacere della scoperta e ci aiutano a comprendere, anche solo parzialmente, i misteri della nostra vita e del nostro mondo. Apprendere è un piacere immenso, un grande divertimento anche quando i nostri neuroni a volte urlano per la fatica e lo sforzo del comprendere e del pensare.

Forse è per questo che ho deciso di fare il “professore”. Sono stato pagato per una intera vita per divertirmi, leggendo.

La vela di altura è stata un’altra grande passione. Con Valeria, mia moglie, abbiamo iniziato a navigare su un Vaurien di quattro metri. Anno dopo anno, risparmiando e rinunciando ad altre amenità abbiamo acquistato un cabinato a vela. Con Rubilena, il nome della barchetta e con la nostra famiglia abbiamo solcato i mari del Mediterraneo. Oggi, più posato e meno coraggioso di ieri, penso alle traversate notturne da Genova alla Corsica, intraprese con le piccole. Mi chiedo a volte se non sia stato un incosciente a coinvolgere Valeria, Elena e Rubina nella mia sfida con il mare e il vento. So solo che ancor oggi ricordiamo quei momenti avventurosi ma anche l’incanto della navigazione in alto mare tra delfini, incrociando, a volte, tartarughe e balene. La pace e la serenità dell’ormeggio in rade deserte davanti alla meraviglia dei graniti rossi dell’Arcipelago Maddalenino o di fronte alle radure selvagge dell’Elba e della Corsica, ove a sera si sentono tutti i profumi della macchia mediterranea.

Dipingere, o meglio scarabocchiare, è una cosa che facciamo tutti almeno istintivamente. Ogni tanto mi diverto a imbrattare qualche tela. A volte sono ispirato dai lavori di veri pittori, altre volte improvviso e mi invento uno stile, utilizzando materiali diversi. Mia figlia Elena ha postato su Face Book una foto che la ritrae con la sua famiglia con, nello sfondo, un mio quadro. Una sua amica, architetta, le ha telefonato chiedendole se fosse appropriato per la sua sicurezza personale far vedere che in casa possedeva un quadro di Mark Rothko. E’ stato il più bel complimento che abbia ricevuto. Spero che Rothko, dall’alto dei cieli, non se la sia presa a male.

La vela mi ha insegnato a saper usare le mani per potermela cavare nelle situazioni più disparate e impreviste. Mi piace l’intelligenza della manualità. Saper fare i lavoretti in casa da apprendista idraulico, elettricista e falegname riempie di soddisfazione se non si generano danni irrimediabili. La soddisfazione è di essere riusciti a risolvere un piccolo problema con le proprie mani e di averlo fatto per gli altri e di essere stati apprezzati. Ho esteso questa passione, di usare le mani, in tanti contesti. Oggi mi sto impegnando a realizzare delle strutture di consolidamento, con tronchi e gabbioni in ferro, da riempire con pietrame, per salvare gli argini di un ruscello, erosi dalle piene invernali e primaverili. Aggiornerò questo paragrafo il prossimo anno se sarò riuscito in questo intento.

Il giardinaggio e l’orto sono, temporalmente, l’ultima passione ma ne parlerò nel paragrafo successivo.

 

E oggi cosa si fa

Quando qualche amico mi dice che sono passati molti anni e siamo oramai senior, rispondo sempre, appropriandomi di una frase letta: “Amico non rammaricarti, il bello deve ancora venire

Cosa si fa quando si porta a compimento il progetto professionale durato una vita?

Si possono fare tantissime cose, continuare a interessarsi o offrire il proprio contributo ma solo se richiesto.

Ho sempre difeso a spada tratta il principio del ricambio generazionale. Ad una certa età dovrebbe essere, normativamente, imposto un passo di lato per favorire una nuova generazione di cittadini ad assumersi le proprie responsabilità. Non sempre gli adagi sono saggi o gradevoli ma mi piace rammentare quello che recita che “quando muore un papa se ne fa un altro”.

Se molti miei coetanei condividessero seriamente e formalmente tale principio, sarebbe un grande giovamento per tutta l’umanità.

Mi piace ricordare un pensiero di Steinbeck che ricordava che “quando l’uomo matura tende a proteggersi da tutto ciò che in realtà potrebbe assicurargli un giovamento”.

Un altro scrittore ci ha invece ricordato “datemi una biblioteca ed un giardino e sarò un uomo felice”.

Su questo fronte sono molto rassicurato e mi sono premunito. Ho una biblioteca poderosa che cerco costantemente di arricchire e ho la straordinaria fortuna di accedere ad un orto.

Mi sono fatto assegnare dai miei cognati una riva scoscesa e incolta che non coltivavano. Con un po’ di impegno, energia e una discreta fatica ho liberato la terra dai rovi infestanti e sono riuscito a terrazzarla con dei tronchi che ho disposto e poi picchettato, uno ad uno, copiando quanto fanno gli agricoltori, per ricavare uno spazio e coltivare anche in zone inaccessibili e impervie.  Nelle aiuole che ho ricavato, assisto alla magia della natura e alla nascita della vita vegetale. Sono in difesa permanente dell’orto dalla golosità di lepri, tassi ed istrici che divorano tutto quello che cresce e in particolare le leccornie che cerco di coltivare. Mi fa piacere comunque sfamarli, soprattutto nei mesi difficili dell’inverno con i cavoli neri toscani. Trovo sempre stupefacente mettere a dimora un semino e vederlo trasformare e sviluppare in una pianta. Noi non dobbiamo fare quasi nulla se non zappettare e seminare. La natura genera invece il prodigio magico del vita e lo rinnova sempre anche quando siamo distratti o la trascuriamo.

Si dice che il giardiniere debba essere paziente. Credo di esserlo non solo accettando i tanti insuccessi vissuti ma soprattutto per la disponibilità all’attesa del prodigio che prima o poi si verificherà. Ho disseminato le zolle libere con oltre 50 varietà diverse di rose. Erano piantine minuscole, di pochi centimetri, in pochi anni sono diventate “grandi” e a maggio regalano un’altra magia, quello dello sboccio dei loro fiori e dei profumi ed essenze incantevoli che rilasciano al mattino e all’imbrunire. Come si sa, i profumi corrono e possono essere avvertiti anche da lontano rispetto alla loro origine perché inondano l’aria con le loro fragranze.

Oggi mi sto dedicando ad un bosco. Uno di quei boschi spontanei ed abbandonati da tutti. Si è sviluppato nella frattura tra due colline e sul fondo scorre un ruscello. In questo bosco ci sono prevalentemente querce, qualche castagno e molte robinie o acacie ma soprattutto tanti rovi impenetrabili di more. Ho deciso di aiutare il bosco a rinnovarsi e ad incrementare la sua varietà botanica. Questo inverno ho predisposto diverse buche e verso la fine di febbraio ho iniziato a piantare piccoli alberelli di Liquidambar, Parrotie, Aceri e Lecci e qualche Sequoia Gigante.

A volte sorrido tra me pensando a cosa esclamerà il “viandante” che entrerà nel bosco “domani”. Vedendo svettare le Sequoie, forse si chiederà, tra il sorpreso e lo smarrito, se sia mai stato un uccello, proveniente dalla lontana Sierra Nevada in California, a lasciare qualche seme nella Pianura Padana. Quando invece vedrà, in autunno, la macchia di alberi gialli, arancioni, rossi si domanderà stupefatto quale evoluzione botanica spontanea si sia potuta verificare in quella parte del bosco, creando quell’effetto foliage, tipico di certi e ben più sofisticati boschi nostrani.      

Mi fa piacere pensare che qualche altra persona possa compiacersi alla vista di questi alberi e vivere insieme a loro un fugace momento di felicità e serenità.

Se ciò si verificherà sarò anch’io molto felice per aver contribuito a lasciare un piccolo segno.